Il socio si sente imprenditore?

Il socio di una cooperativa è un imprenditore. Un imprenditore collettivo, che apporta una quota di capitale spesso modesto e partecipa alla gestione attraverso il proprio lavoro, o conferendo i propri prodotti, o acquistando merci e servizi. Un imprenditore che partecipa al processo decisionale attraverso meccanismi democratici improntati al principio “una testa – un voto”. Ma si sente imprenditore? Si riconosce in questa celebre definizione di Luigi Einaudi? “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi”.


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5 risposte a “Il socio si sente imprenditore?”

  1. E il titanico sforzo di sempre : quello di considerare proprio ciò che è comune. E l’unica via e’ la partecipazione per una autogestione reale, con regole stimolanti l’apporto dei soci

  2. Il socio si sente imprenditore? Anche questo è un quesito vecchio come la cooperazione. A stare all’evidenza empirica non molto, si direbbe, a stare allo scollamento di molti soci dalla propria cooperativa, alla scarsa partecipazione, ed alle molte proteste per assenza di coinvolgimento reale, anche quando formalmente c’è partecipazioni.

    E un problema complesso a cui è difficile dare una risposta chiara, ma certo perché i soci siano davvero imprenditori a mio parere bisognerebbe andare verso una legislazione ad hoc che ritagli per davvero le caratteristiche delle cooperative e le differenzi dalla altre imprese. E questo molto spesso non si fa.

    Facciamo un esempio ovvio di questi giorni e di queste ore. La riforma del mercato del lavoro. Come succede dalla Legge Basevi (1947) in avanti la legislazione sul lavoro delle imprese convenzionali è sempre stata applicata pari pari (o con differenze marginali, vedi la doppia posizione di dipendente e socio dei lavoratori delle coop di lavoro) anche alle cooperative. In questo modo è evidente che si cancella o comunque si oscura fortemente qualunque specificità della cooperative rispetto alle altre imprese anche, ma non solo, rispetto alla posizione imprenditoriale del socio.

    Chiaro che questo esempio si applica prima di tutto alle coop di lavoro, ma esempi simili potrebbero essere fatti per altre forme cooperativistiche. Continuando con l’esempio sulle coop di lavoro, perché il socio diventi davvero imprenditore è necessario che vi sia un chiaro “empowerment” del socio, e ciò in soldoni si riduce al fatto che il socio deve avere le spalle sufficientemente coperte perché questo “empowerment” diventi effettivo. E l’unica cosa che può proteggere davvero il socio è la legge ovviamente. Quello che voglio dire è che da sempre il proprietario dell’impresa, o chi la controlla, riceve una fortissima protezione legale, per ovvi motivi. L’unica forma di impresa in cui questo non avviene ed in cui la protezione legale per i proprietari (o controllori, che dir si voglia, cioè i soci) è spesso debole è proprio l’impresa cooperativa. Questa debolezza è evidente nel caso delle cooperative di lavoro, nelle quali il socio lavoratori ha tutele simili o addirittura più deboli del semplice dipendente delle imprese convenzionali. Pretendere che poi il socio si senta imprenditore è come pretendere di costruire una casa sulla sabbia, cioè otteniamo un gigante dai piedi di argilla. Prima di tutto bisogna partire dalle fondamenta, che devono essere di cemento armato (o altro materiale molto resistente) e ben piantate nel terreno.

    In realtà è un problema complesso e penso che a tutt’oggi ancora non riusciamo a capirne bene le implicazioni perché, tornado all’esempio delle coop di lavoro, il problema ovvio è che se si da troppa protezione ai soci lavoratori si rischia che poi questi si comportino in modo opportunistico, attraverso molti canali. Infatti è proprio per questo che la riforma del marcato del lavoro che viene votata in queste ore (o verrà votata nelle prossime) dal Parlamento sta togliendo quasi ogni protezione ai lavoratori…. E’ un problema estremamente complesso che anche gli scienziati (economisti, sociologi, psicologi, aziendalisti, non sono riusciti ad affrontare bene fino ad oggi. Tuttavia, a me sembra evidente che proprio in presenza di una riforma del mercato del lavoro di questo tipo, che chiaramente indebolisce (magari anche per buoni motivi) la posizione dei lavoratori, sarebbero proprio le coop di lavoro a dover fare uno sforzo per differenziarsi dagli altri, per marcare la propria differenza, per rafforzare il ruolo dei lavoratori, ed invece mi sembra che come sempre le coop di stiano adeguando passivamente alla riforma del mercato del lavoro. Cosa ancor più strana se si pensa che il Ministro del lavoro viene proprio dal mondo delle Coop.
    E questo da adito alla chiara idea che non ci sia alcuna differenza tra i rapporti di lavoro nelle coop e nelle altre imprese. Poi come facciamo a pretendere che i soci delle cooperative siano anche imprenditori? Sarebbe come pretendere che i dipendenti delle imprese convenzionali siano anche imprenditori.

    Una intuizione di fondo può essere che i soci delle cooperative dovrebbero in generale avere maggiori tutele dalla legge. Per tornare alle coop di lavoro per esempio proprio quelle del famosissimo Art. 18 della Legge 300/70, cioè maggiori vincoli sui licenziamenti, perché non si è mai visto un proprietario di una impresa che può essere licenziato a piacimento dell’impresa stessa. Che proprietario è? Per definizione il proprietario non può essere licenziato perché è proprietario. Sarebbe come se mi dicessero che io posso essere licenziato dalla proprietà della mia casa. Chiaro che in quel caso l’unica conclusione possibile è che io non sono proprietario della casa. Allo stesso modo è evidente che con questa legislazione il socio lavoratore non è proprietario della cooperativa. Ma come detto il problema è estremamente complesso e le soluzioni tutt’altro che ovvie. Per tornare ad intuizioni basilari, la protezione legale non è mai gratuita, e quindi se la legge da più protezione chiede anche qualcosa in cambio, e questo qualcosa sta chiaramente nelle maggiori responsabilità, per esempio rispetto al fallimento dell’impresa che implica anche la perdita del posto di lavoro. Ma il punto cruciale, anche rispetto alla stessa psicologia del socio (che è molto più importante di quanto normalmente si creda), è che un socio più tutelato dalla legge è anche un socio che è disposto ad accettare più responsabilità. In altri termini una legislazione favorevole è condizioni necessaria perché il socio dia valore alla propria posizione e sia quindi disposto ad affrontare maggiori sacrifici per tutelarla. Un socio che non si senta sufficientemente protetto non sarà disposto a mettersi in gioco per proteggere e far grande la sua impresa.

    E’ questo passaggio che manca in molti dei ragionamenti che vedo in giro. Normalmente si pensa che il socio non merita molta tutela perché non è disposto ad impegnarsi abbastanza per l’impresa, ed a quel punto l’unica conclusione possibile è che le tutele vanno ridotte, cancellando in questo la specificità delle imprese cooperative. Il ragionamento andrebbe fatto al contrario. E’ proprio perché sa di essere protetto (e quindi inevitabilmente di avere più responsabilità, e forse anche di affrontare qualche rischio in più), che il socio sarà disposto ad affrontare maggiori sacrifici. Se gli si da tanto, ci darà tanto……… Questa a mio parere è l’unica base possibile per poter davvero trasformare il semplice socio in un imprenditore cooperativo.

  3. Va precisato che anche ponendo una problematica di questo tipo le risposte che possono essere date sono tutt’altro che ovvie. Molti economisti risponderebbero che non c’è alcuna risposta. Per esempio, se si vietasse per davvero il licenziamento del socio lavoratore se non in casi estremi (in quanto il socio è proprietario ed il proprietario non può essere licenziato) poi bisognerebbe spiegare come fa la cooperativa a fronteggiare la variabilità della domanda per i prodotti dell’impresa, con salari che chiaramente dovrebbero diventare molto più variabili di ciò che siamo abituati ad osservare. Questo anche ammesso che i livelli di produttività non diminuiscano. Cosa non scontata, ma anche in questo caso le risposte e l’evidenze può essere molto contro-intuitiva, nel senso che normalmente si ritiene che lavoratori molto tutelati lavorano meno, ed invece poi spesso si osserva che è vero il contrario. E poi bisognerebbe spiegare come fa la cooperativa a finanziarsi ugualmente, pur dovendo garantire il posto di lavoro ai suoi soci in un modo così rigido.

    A queste domande non ci sono risposte chiare almeno per ora, quindi ciò che si propone non è certo una riforma immediata, ma invece si propone di iniziare un percorso che vada un una direzione piuttosto che in un’altra, cioè nella direzione della valorizzazione della posizione del socio con modalità che solo l’impresa cooperativa è in grado di realizzare.

  4. Oggi l’Articolo 18 della Legge 300/70 verrà sostanzialmente abolito dopo 44 anni.

    I motivi per cui viene abolito sono sostanzialmente due:

    1) Il primo arcinoto: se si da troppa protezione ai lavoratori si rischia che questi si comportino in modo opportunista, cioè che riducano l’impegno. E’ una questione su cui c’è una polemica gigantesca da sempre, quindi non vale la pena ripetere sempre le stesse cose.

    2) Il secondo leggermente meno ovvio, ma anche esso noto: le imprese convenzionali sono “costrette” a licenziare, anche quando non vogliono perché non riescono in altro modo a fronteggiare le variazioni della domanda. Se la domanda diminuisce si licenzia. Ha sempre funzionato così e temo che funzionerà sempre così. Questo perché i costi sono rigidi (i salari sono rigidi) e non c’è modo di adeguarli alla domanda.

    Proprio sul secondo aspetto le cooperative di lavoro hanno un grosso vantaggio, almeno potenziale, che sta nella flessibilità. Molti studi empirici hanno dimostrato che i salari nelle cooperative di lavoro sono molto più flessibili che nelle imprese convenzionali. Questo perché i soci lavoratori controllano l’impresa, e quindi possono adattare i salari alla domanda, mentre i dipendenti delle imprese convenzionali non controllano l’impresa ed è quindi molto più difficile adattare i salari. Ancora una volta il punto di forza delle cooperative sta chiaramente nella flessibilità, non certo nell’efficienza.

    Questo potrebbe anche implicare (forse) che l’Articolo 18 della Legge 300/70 è compatibile con il funzionamento delle imprese cooperative (perché queste sono costrette a licenziare meno delle imprese convenzionali ed in effetti licenziano meno), mentre invece non è compatibile con le imprese convenzionale a causa delle dette rigidità. ma quest’ultimo aspetto nessuno parla.

  5. Il fatto che le cooperative di lavoro licenzino meno delle imprese convenzionali è dimostrato da molti studi.

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