Come si diventa capo

Non si diventa nostromo per fortuna o per caso, e prima di raggiunger la maturità. Dovevi aver passato almeno la trentina, per diventarlo, e possedere una lunga esperienza di mare nonché doti davvero speciali. Saper sentire l’arrivo e la portata d’una tempesta basandoti esclusivamente su un alito di vento o sulla forma d’una nuvola o sul volo di un uccello, per incominciare. Saper tenere il timone meglio del nocchiere, saper salire in coffa meglio del gabbiere, saper terzarolare le vele meglio dei pennonieri e conoscere la tua nave meglio del capitano: ravvisarne ogni scricchiolio inconsueto, ogni anomalia. Inoltre dovevi essere in grado di sostenere il tuo ruolo di leader, farti rispettare e ubbidire dai marinai, incutergli paura, all’occorrenza punirli e nel medesimo tempo tutelarli, difenderli, curarli: guarirne la scrofola o la diarrea, cavargli il dente marcio, amputargli la gamba in cancrena. Era anche un personaggio assai solo, il nostromo. Lo era perché, non avendo il grado di ufficiale né la qualifica di marinaio, viveva in un’autonomia fisica e psicologica che lo estraniava dagli uni e dagli altri. Ad esempio dormiva sì a prua, dalla parte della ciurma, però per conto suo: in una cabina uguale a quelle degli ufficiali e spostata verso il ponte. Mangiava sì lo stesso cibo del capitano, beveva sì la stessa birra e la stessa acquavite, però per conto suo: magari accucciato sotto l’albero di mezzana o sopra un osteriggio, luoghi che gli consentivano di non perder di vista la ciurma e la rotta. E tutte queste cose, cioè la sua solitudine, la sua versatilità, la sua responsabilità, lo rendevano un uomo molto assennato, molto riflessivo. Quasi il savio di bordo”. (Tratto da Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci)


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