Prigionieri del titolo di studio

“L’uomo è per sua natura inquieto. Quando viene lasciato per troppo tempo nello stesso posto si annoia e diventa inevitabilmente improduttivo e demotivato. La cura, ne ero assolutamente convinto, consisteva nell’incoraggiare i manager a scambiarsi le mansioni“.

“Una persona che lavorava all’ufficio contabilità, per esempio, poteva cambiare il proprio posto con una addetta alle vendite. Pianificammo così gli avvicendamenti con circa un anno di anticipo, per dare a ciascuno il tempo d’imparare il mestiere dell’altro e rendere agevole il passaggio delle consegne. Ma, come per gli altri programmi realizzati alla Semco, volevamo che fossero i dipendenti a prendere l’iniziativa. Non dovevamo essere noi a decidere chi doveva andare e dove”.

“A nostro giudizio, un minimo di due anni e un massimo di cinque anni per un lavoro era un periodo di tempo piuttosto ampio. Chiunque avesse voluto rimanere al proprio posto più a lungo avrebbe potuto farlo, se fosse stato in grado di affrontare continuamente nuove sfide. In caso contrario, anche lui doveva trovarsi un compagno e stare al gioco”.

“Abbiamo assistito a diversi trapianti societari riusciti, che hanno suscitato scandalo tra i conservatori. Una delle nostre unità meglio gestite, la divisione delle lavastoviglie, che richiede continuamente decisioni d’importanza critica per quanto riguarda il marketing e la produzione, è diretta da un contabile che ha lavorato per molti anni con noi come revisore dei conti. L’unità per la produzione di hardware e software, che fabbrica bilance elettroniche, è diretta da un ingegnere meccanico. Fino a poco tempo fa il nostro attuale revisore dei conti era direttore delle vendite“.

“Non vogliamo che i nostri dipendenti restino prigionieri dei loro titoli di studio o dei loro curriculum””.

(Ricardo Semler, Maverick, Bompiani, 1993)

 

 


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