Da sempre si dice che la pubblica amministrazione dovrebbe ammodernarsi, essere più efficiente, erogare buoni servizi. Questo perché i cittadini che pagano le tasse hanno diritto a servizi di qualità. E perché una pubblica amministrazione efficiente favorisce lo sviluppo del territorio, dell’economia, della società. Queste ed altre sembrerebbero ragioni più che sufficienti per giustificare interventi a contrasto di inefficienze, sperperi, favoritismi.
In realtà non bastano. Altrimenti non si spiegherebbero le persistenti diseconomie, gli sprechi, le resistenze che da sempre si frappongono ai periodici tentativi di riforma della pubblica amministrazione. In altre parole, non basta avere buone ragioni perché un’azione venga compiuta. O meglio, non bastano buone ragioni di origine esterna, provenienti dalla società o dalla politica. Servono buone ragioni di origine interna.
Perché un’azione di riforma si realizzi infatti serve che questa venga considerata dai pubblici dipendenti come portatrice di un qualche vantaggio anche per loro. I dipendenti pubblici hanno infatti un potenziale di resistenza e boicottaggio di gran lunga superiore a qualsiasi tentativo di riforma.
Il problema è che i vantaggi ricercati dai dipendenti pubblici spesso sono di tipo corporativo, improntati ad un egualitarismo esasperato. Ne risultano processi di riforma e modernizzazione molto lenti e costosi, frutto, più che di una diffusa cultura del cambiamento, dello sforzo titanico di una minoranza di “pionieri”.