È di stretta attualità il percorso che le tre principali sigle dell’associazionismo cooperativo italiano (Confcooperative, Legacoop e AGCI) stanno compiendo verso la loro integrazione strategica e – in un secondo momento – organizzativa. Si tratta di un’azione da salutare con favore, per ragioni fin troppo evidenti, che hanno a che fare con la difesa e lo sviluppo della forma di impresa cooperativa nel nostro paese. Se è vero che appaiono fuori tempo massimo coloro che si oppongono ad ogni azione unitaria in nome di vecchie logiche di collateralismo partitico, è tuttavia semplicistico ritenere che le differenze fra le cooperative “bianche” e quelle “rosse” siano superabili con un semplice documento politico o un accordo fra i vertici associativi. Non si tratta certo di resuscitare i fantasmi della DC o del PCI, quanto di considerare con la dovuta attenzione le differenti matrici culturali di provenienza. Per la cooperazione “rossa” stanno principalmente nel modello del socialismo fabiano, di origine urbana ed operaia, sviluppatosi in particolare con la cooperazione di consumo britannica. Diverse sono le fondamenta culturali della cosiddetta cooperazione “bianca”, rintracciabili nella tradizione filantropico-protestante tedesca, che diede vita a forti movimenti nel mondo rurale attraverso cooperative di credito e di servizi all’agricoltura.