Perché le cooperative falliscono

Perché le cooperative falliscono” è il titolo di un saggio di Peter Kramper contenuto in Un’impresa speciale edito dal Mulino e curato da Patrizia Battilani e Harm G. Schröter, di cui abbiamo già scritto tempo fa (vedi). L’autore confronta tre situazioni di fallimento cumulativo di cooperative: le cooperative di consumo dell’Europa occidentale fra il 1960 ed il 1985, le cooperative di credito giapponesi fra il 1970 ed il 2000 ed infine le cooperative agricole negli stati Uniti fra il 1990 ed il 2010.  Situazioni molto diverse fra loro che tuttavia, secondo l’autore, presentano alcuni tratti in comune. Dopo un periodo anche lungo di sviluppo, interi settori cooperativi sono falliti perché sono venute meno le situazioni di “insufficienza del mercato” che avevano giustificato la loro nascita. Costrette a confrontarsi con un ambiente più competitivo, le cooperative mostrano limiti manageriali (carenza di controlli interni) e strutturali (inadeguata capacità di procurarsi capitali). In altri termini, le cooperative vanno bene finché non sono in concorrenza con le imprese convenzionali. Un’altra causa di insuccesso sta nel venir meno di una base sociale solida e coesa, in grado di compensare i limiti manageriali e strutturali di cui sopra. Le cooperative falliscono perché non sanno reagire alle trasformazioni sociali e generazionali attraverso un radicale ripensamento e riposizionamento della loro mission e logica di sviluppo.


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3 risposte a “Perché le cooperative falliscono”

  1. Per resistere in condizioni difficili, anche in presenza di forte competizione, le cooperative dovrebbero imparare a sfruttare i loro vantaggi organizzativi rispetto alle imprese convenzionali. A mio modo di vedere questi vantaggi non stanno certo nella maggiore efficienza, siccome la linea gerarchica nelle coop è tendenzialmente più debole che nelle imprese convenzionali, e può essere usata molto meno per fronteggiare una situazione fortemente concorrenziale (i soci non risponderebbero perché è più difficile obbligarli a rispondere), ma è invece nella loro maggiore flessibilità. Questo potenzialmente è un grosso vantaggio, ma solo potenzialmente. Bisogna imparare ad utilizzarlo e non è scontato. Per esempio maggiore flessibilità salariale, maggiore flessibilità ed equità nei rapporti di lavoro (relazioni tra manager e lavoratori), maggiore flessibilità negli orari di lavoro, minore necessaità di meccanismi di controllo che vuole anche dire minori costi e tempi amministrativi improduttivi. Questo non significa che non ci vogliano i controlli, per esempio quelli orizzontali, non solo quelli verticali, e la peer pressure, ma di nuovo, si tratta di controlli meno rigidi e costosi. Questi esempi riguardano tutti la flessibilità delle condizioni contrattuali e quindi soprattutto le cooperative di lavoro, ma in realtà gli stessi ragionamenti sono applicabili anche alle altre tipologie di coop. Per esempio nelle coop di credito conosciamo tutti l’importanza del relationship banking, che significa maggiore flessibilità ed interazione personale tra banca e prenditore, nelle coop agricole la flessibilità è necessaria nel perequare il prezzo dei conferimenti, e via dicendo. Questa è una delle poche armi che le cooperative hanno e che le imprese convenzionali non possono avere quindi ritengo che su questi aspetti bisogna lavorare. Poi chiaro che i motivi del fallimento possono essere tanti, dalla cattiva gestione, alla cattiva governance, da problemi di finanziamento, alla sottocapitalizzazione, o semplicemnte al fatto che i soci sono vecchi e non c’è ricambio generazionale. Oppure semplicemente il disinteresse della base sociale. Infine in alcuni casi anche la mancanza di controlli orizzontali e verticali adeguati. Tutte questioni su cui certo bisogna riflettere.Ciao, Ermanno

  2. Oltre alla flessibilità aggiugerei anche la stabilità. Le cooperative sono in media imprese più stabili di quelle convenzionali, per esempio nei rapporti di lavoro, ma anche perché più raramente vengono vendute e questo indice più stabilità in termini di permanenza dei manager e nei programmi di investimento. La stabilità ed il lungo orizzonte temporale degli investimenti è anche gfarantita dalla presenza delle riserve indivisibili. Anche questi sono vantaggi comparati, benché solo potenziali.

  3. Le cooperative sono più stabili anche perché sono mediamente meno propense al rischio delle imprese convenzionali. I soci cooperatori rischiano di più degli investitori ad esempio perché non possono differenziare i loro investimenti, e quindi sono più conservativi rispetto al rischio imprenditoriale rispetto agli investitori. Gli investitori sono più propensi al rischio anche perché, ad esempio, se l’investimento va male possono licenziare i lavoratori, mentre invece i lavoratori non possono (vogliono) auto-licenziarsi, e quindi avranno un atteggiamento più conservativo rispetto al rischio. Cioè, le cooperative internalizzano più delle imprese convenzianali i rischi che ricadono sugli stakeholder diversi dagli investitori, come i lavoratori, ma anche i clienti. Infine, le cooperative sono più stabili perché più radicate sul territorio, e quindi per esempio tendono a spostarsi e a cambiare progetto imprenditoriale meno di frequente.

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