Quando l’azienda chiede un dono

È noto a tutti che la flessibilità rappresenta un valore fondamentale per qualunque organizzazione, specie nei reparti manifatturieri, sempre più alle prese con richieste di prodotti personalizzati da parte della clientela.

Mentre in passato si puntava ad ottenere la flessibilità in fabbrica attraverso la ridondanza delle scorte, da tempo si punta sempre più ad avere rifornimenti tempestivi ed in piccoli lotti, veloci riadattamenti dei macchinari, informazioni in tempo reale sullo stato della produzione, dei consumi, delle usure.

L’obiettivo della flessibilità e dell’efficienza sta in piedi finché tutto funziona alla perfezione, ovvero fino a che il meccanismo complesso regge, tutti gli incastri coincidono, tutti fanno la loro parte, dentro e fuori l’azienda.

Ma nel momento in cui sorge un intoppo, diventa decisivo il comportamento delle persone. E a quel punto, quando le cose non vanno come era previsto che andassero, cambia il criterio con cui ci si rapporta coi collaboratori. Nei momenti critici infatti non è più rilevante il sapere tecnico e la conoscenza delle procedure, ma l’affidabilità personale, l’essere disponibili a prestazioni discrezionali di fiducia che possono trascendere non solo le regole interne, ma anche il contratto di lavoro esplicito.

In maniera più o meno dichiarata si chiede al lavoratore di fare una specie di “dono” all’azienda, in nome della tutela di lungo periodo del rapporto di lavoro. Le organizzazioni prive di una cultura di impresa molto forte non possono far conto su questa disponibilità da parte del personale: sono aziende condannate a pagar caro tutti i danni derivanti da eventi inattesi e da crisi operative.


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