“Bisogna preparare la propria successione a freddo, quando si è caldi, per evitare che essa si realizzi a caldo, quando si è freddi”
La successione di impresa è sempre un problema per tutte le aziende famigliari. Tutti noi conosciamo tanti esempi di cattiva gestione della successione d’impresa di padre in figlio (o di suocero in genero, di nonno in nipote, e così via).
Numerose studi evidenziano un fenomeno peraltro ben noto a chiunque gestisca una impresa: 2 imprese su 3 chiudono nel periodo di passaggio tra una generazione e l’altra.
Quando si parla di successione di impresa si pensa solitamente ai soli aspetti fiscali e patrimoniali del problema. Si coinvolgono notai, banche, avvocati, fiscalisti, associazioni di categoria. Gli altri aspetti della successione vengono normalmente sottovalutati, come se questo problema fosse solamente tecnico ed economico. Ma questo approccio è semplicistico, perchè non tiene conto delle logiche di funzionamento dell’impresa famigliare e della sua complessità.
L’impresa famigliare è retta da uomini dalla triplice personalità. In quanto Homo Economicus l’imprenditore si preoccupa delle dimensioni economiche e del valore della propria impresa; ma in quanto Homo Politicus, l’imprenditore ama e vuole mantenere il potere che si è costruito negli anni; infine, in qualità di Pater Familias, si preoccupa di come distribuire ai figli ed alla famiglia la ricchezza che ha creato[i].
Il padre-imprenditore ragiona con queste tre personalità, ovvero con tre teste, che hanno “dimensioni” e pesi differenti da persona a persona. A seconda di come si combinano le teste, l’imprenditore affronta in modo diverso il problema della trasmissione della sua impresa, compreso quello della successione famigliare.
La testa politica ad esempio (Homo Politicus) è quella che fa sì che i padri-imprenditori non trasmettano mai spontaneamente la propria impresa. La successione è un tema di cui si parla poco fra padri e figli. I padri hanno poca voglia di sollevare il problema. I figli hanno paura di ferire i padri. L’imprenditore che ha figli è spesso convinto che i figli piano piano prenderanno il suo posto in azienda, che il passaggio di consegne sarà indolore, che la decisione sarà presa assieme, figli e padri. Man mano che il passaggio di consegne diventa evento possibile e reale si scopre che la trasmissione spontanea non esiste. I figli non appaiono pronti (secondo i padri), i padri non vogliono cedere il loro potere (secondo i figli), gli stessi fratelli non sono così d’accordo fra loro.
È così che il padre-imprenditore spesso designa un “erede che aspetta passivamente”, non certo un delfino che scalpita per prendere il potere. Diffusa è la presenza dei cosiddetti “figli muti”, che accettano il loro stato e non desiderano affatto il governo dell’impresa. Anzi spesso i genitori sono parte integrante dei loro progetti per il futuro. Tale mutismo garantisce l’armonia familiare, che al contrario non è assicurata da un erede “delfino”. In quest’ultimo caso l’armonia si frantuma, spesso nasce una rottura insanabile.
Questo accade perché i padri-imprenditori non vogliono cedere il loro potere, dividerlo con altri. Al massimo concedono ai figli autonomia per le attività amministrative, di cui non vogliono sapere niente (è qui che trovano spazio normalmente le figlie, possibilmente dotate di un diploma di ragioneria). I figli raramente combattono per rovesciare una situazione che appare loro immutabile. A loro volta i padri citano l’inesperienza dei figli come la ragione per il loro comportamento. Nessuno mette in atto prassi o progetti perchè i figli facciano le esperienze necessarie. Si dà per scontato che un giorno – molto di là da venire – i figli saranno pronti. I casi di autonomia dei figli si riscontrano laddove questi svolgono in azienda una attività completamente diversa da quella del padre. Ma di solito sono aree che non scalfiscono il potere del genitore. Rari sono i casi ad esempio in cui ai figli sono demandate le attività commerciali.
I padri-imprenditori rifiutano di smettere di lavorare una volta raggiunta l’età della pensione. Rimangono aggrappati al loro potere ed alle loro prerogative il più a lungo possibile. Nessun padre crede veramente all’ipotesi di non lavorare. Infatti al di fuori dell’azienda non saprebbe cosa altro fare.
La testa di Pater Familias è a sua volta rilevante specie se non si è compiuta una piena differenziazione impresa/famiglia. Nelle aziende agricole ad esempio impresa e famiglia sono fortemente compenetrate. Casa e luogo di lavoro sono normalmente contigui. Tempi di vita e tempi di lavoro sono intrecciati. A tavola si parla di lavoro. Dopo cena la famiglia cura la contabilità dell’azienda. I figli crescono in questa atmosfera particolare. Imparano a fare impresa dai racconti dei genitori, e dal loro esempio. Tutti gli imprenditori – anche quelli che fanno studiare i figli – sono convinti che alla fine quello che conta sia la gavetta. È normale che gli adulti che si sono “fatti da sé” pensino che la vera formazione si faccia solo sul campo.
Il padre-imprenditore sogna di costruire una dinastia. Anche se non lo dichiara, il padre spera che il figlio prosegua la sua attività, e soffre quando crede che il figlio non sia adatto. In questi casi l’imprenditore si dibatte fra l’idea di chiudere l’attività (e deludere l’erede) o continuare sapendo che prima o poi l’erede si troverà di fronte a difficoltà insormontabili. Chi viene deluso dai figli ripone le proprie speranze sui nipoti, cui fin da bambini si magnificano le doti dell’impresa del nonno.
Vi sono poi i casi dei figli che entrano in azienda a causa di un fallimento scolastico o di problemi famigliari contingenti. Diventano “imprenditori per forza”, costretti perchè altre strade si chiudono, o perchè i genitori non sono disponibili ad aspettare un figlio con le idee poco chiare e che “perde tempo”. Sono figli che ereditano l’impresa senza alcun progetto imprenditoriale.
Ma vi è anche chi non vuole i figli in azienda. Sono i padri che hanno una immagine negativa della propria impresa. Non vogliono essere responsabili delle scelte dei figli, del loro destino. Sono padri che fanno coincidere il valore dell’impresa con il loro lavoro, convinti che senza di loro l’impresa non valga nulla.
Ma anche quando il padre-imprenditore ragiona in termini economici (da Homo Economicus), non sempre la sua razionalità segue percorsi lineari. La motivazione economica da sola non spiega il suo comportamento. Altre motivazioni sono altrettanto importanti, come il desiderio di essere liberi, di non avere “padroni”, di fare qualcosa a proprio modo, di raggiungere il successo personale. Col passare del tempo a queste motivazioni se ne aggiungono altre, come la ricerca della stima dei clienti e dei fornitori, la volontà di proseguire le iniziative intraprese. Il padre-imprenditore che è riuscito ad accumulare terreni e patrimoni mitizza i tempi in cui ci si è caricati di debiti e mutui. I sacrifici fatti in passato gli impediscono di avere un approccio distaccato al proprio patrimonio: fa fatica a vendere ciò che ha faticosamente conquistato, ripete spesso ai figli “quello che si vende non è più tuo”.
Molti padri-imprenditori considerano quindi la propria azienda non solo come un mezzo per fare soldi, quanto uno status da raggiungere e da difendere, anche a costo di rinunciare a progetti più ambiziosi. Per loro l’idea di cedere la propria azienda appare intollerabile, come un lavoro ancora più faticoso di quello che fu necessario per aprirla.
Un padre-imprenditore, prima di essere travolto dagli eventi, deve porsi alcune domande, e lavorare per rispondere ad esse. La famiglia è consapevole dei problemi che l’azienda sta fronteggiando e che dovrà fronteggiare nel futuro? La famiglia ha pianificato i propri bisogni e quelli del business per il futuro? C’è un progetto di successione ed è stato comunicato? Il padre e i successori hanno un rapporto interdipendente? Esiste un programma di addestramento per i figli? I membri dell’azienda (familiari e non) condividono simili vedute? I membri della famiglia collaborano assieme per risolvere i problemi? La famiglia ha creato meccanismi di successo per dirimere i conflitti? C’è fiducia fra i familiari, e fra chi lavora in azienda e che non è coinvolto nella gestione? Quali sono i meccanismi di controllo che indicano quando si va bene o quando si è inefficienti?
Rispondere a tali domande significa pianificare “a freddo” una corretta gestione della successione famigliare.
[i] Vedi: Michel Bauer, Tra impresa e famiglia, NIS, 1997