L’uomo col megafono

Immaginate una festa. Gli ospiti, di tutti i ceti sociali, non sono persone qualsiasi. Conoscono il mondo: hanno vissuto, sofferto, possiedono delle attività, vantano solide com- petenze. Stanno affrontando argomenti che li interessano, scambiandosi sottili correzioni. Stanno venendo a galla certe preoccupazioni nascoste che – oh, meno male, che bello – vengono confermate, condivise e alleviate da chi ci è già passato. A un certo punto entra un uomo col megafono. Non è l’ospite più intelligente della festa né il più navigato, e nemmeno quello che si esprime meglio.

Però ha il megafono.

Mettiamo che inizi a parlare di quanto ama le mattine di primavera. Cosa succederà? Be’, gli altri si volteranno ad ascoltare. Sarebbe difficile evitarlo. Anche per un fatto di educazione. E poco dopo gli ospiti, divisi in gruppetti, potrebbero trovarsi a parlare delle mattine di primavera. O meglio, della validità delle sue idee sulle mattine di primavera. Alcuni gli daranno ragione, altri torto, ma siccome l’Uomo col Megafono fa un gran baccano, cominceranno a reagire ai suoi stimoli. Appena cambierà argomento, lo cambieranno anche loro. Se userà continuamente l’espressione «in fin dei conti», cominceranno a usarla anche loro, se butterà là che il lato ovest della sala è meglio del lato est, partirà una lenta migrazione verso ovest.

Queste reazioni non dipendono dalla sua intelligenza, dalla sua straordinaria esperienza del mondo, dai suoi poteri di preveggenza né dalla sua padronanza della lingua, ma dal volume e dall’onnipresenza della sua voce narrante.

La sua caratteristica principale è il predominio. L’Uomo col Megafono sovrasta tutte le altre voci, e la sua retorica diventa la retorica di riferimento perché è inevitabile.

Dopo un po’, l’Uomo col Megafono guasterà la festa. Gli ospiti smetteranno di credere nel loro valore di ospiti, e arriveranno a pensare che il loro ruolo consista soprattutto nel reagire all’Uomo col Megafono. Smetteranno di fare quello che gli ospiti dovrebbero fare: continuare a parlare di ciò che li interessa e li preoccupa. Diventeranno passivi, non crederanno più nella validità delle loro impressioni. Potrebbero anche non accorgersi che stanno parlando nel suo stile, pensando alla sua maniera. Ciò che è importante per lui sembrerà importante anche a loro.

Abbiamo detto che l’Uomo col Megafono non è il più intelligente né il più bravo a parlare, e nemmeno la persona più navigata della festa. E se fosse anche peggio di così?

Mettiamo che l’Uomo col Megafono non abbia valutato attentamente quello che sta dicendo. In sostanza apre bocca e dà fiato. E che malgrado il megafono, debba urlare un po’ per farsi sentire, cosa che limita la complessità dei suoi discorsi. Siccome ritiene di dover intrattenere gli ospiti, salta di palo in frasca, prediligendo il concettuale-didascalico («Stiamo mangiando altri cubetti di formaggio: che gusto!»), l’ansiogeno-polemico («Il vino sta finendo per colpa di un oscuro complotto?»), il pettegolezzo («Segnalata sveltina nel bagno al piano di sotto!»), il futile («E voi, quale settore della sala preferite?»).

Noi consideriamo il linguaggio un prodotto del pensiero (facciamo un pensiero e poi scegliamo una frase con cui esprimerlo), ma il pensiero è a sua volta un prodotto del linguaggio (tentando, grazie alle parole, di trasmettere un significato preciso, capiamo meglio ciò che pensiamo). E questa specie di logorroico, imponendo a viva forza il suo lessico ristretto agli ospiti, ha inciso sulla quantità e la qualità dei loro pensieri.

In sostanza, ha imposto un tetto massimo di intelligenza alla festa.

(da: Il megafono spento. Cronache da un mondo troppo rumoroso, di George Saunders, ed. minimum fax 2009).


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