La partecipazione dei lavoratori

Da un po’ di tempo, dopo anni di silenzio se non di aperto ostracismo sia da parte sindacale che da parte datoriale, va di moda parlare di partecipazione dei lavoratori. Qualcuno addirittura si lancia in prospettive suggestive come la “Teal Organization” (F. Laloux, Reinventare le organizzazioni, Guerini ed.).

È importante non cadere in velleitarismi romantici e fissare alcuni punti.

La prima cosa da dire sulla partecipazione al lavoro è anche la più scomoda: a molti lavoratori non piace partecipare, non sono interessati, non credono sia giusto, non vogliono essere coinvolti. È una scelta che può certo cambiare nel corso del tempo e a fronte di esperienze positive, ma per far ciò occorre un lungo lavoro di superamento di pregiudizi estremamente radicati, quali la convinzione che il lavoro subordinato sia una condanna da scontare, senza possibilità di sviluppi o riscatti.

Altri vedono la partecipazione come qualcosa di strumentale ad un miglioramento economico, come aumenti di stipendio, di inquadramento, premi una tantum etc., e non sono quindi disposti ad essere coinvolti in processi partecipativi se prima non sono ben chiare le condizioni dello scambio, del dare, e dell’avere. E dato che non è facile misurare nel breve termine ed in modo oggettivo i risultati derivanti da pratiche di partecipazione, sono lavoratori che accettano soluzioni legate esclusivamente a fattori agevolmente misurabili e quantificabili, ovvero proprio quei fattori che non sempre risultano incisivi nel determinare la performance aziendale. Ne sono un esempio i classici interventi per il miglioramento dei tempi di attraversamento dei semilavorati all’interno delle aree di produzione, o dell’abbassamento dei tassi di difettosità, tutti fattori importanti ma raramente decisivi per un salto reale di qualità del coinvolgimento dei lavoratori.

Queste posizioni nascono dalla radicata convinzione che esista una antitesi insormontabile fra interessi dell’impresa ed interessi dei lavoratori, secondo la quale i lavoratori non possono e non devono in alcun modo regalare nulla a chi si approfitta del plusvalore da essi prodotto.

Ma anche chi è favorevole (o non contrario a priori) alla partecipazione, spesso non ne conosce modalità, implicazioni, limiti e potenzialità. È su questi temi che occorre fare chiarezza, specie in quei contesti, come ad esempio quelli delle cooperative di lavoro, dove la partecipazione non solo dovrebbe essere qualcosa di naturale e spontaneo, ma dovrebbe pure costituire un elemento vincente nella competizione sul mercato ed un fattore decisivo nella ricerca del benessere del lavoratore.

In sintesi occorre che tutte le parti, lavoratori e datori di lavoro, siano consapevoli che la partecipazione del lavoratore è un modo diverso di lavorare, ovvero deve essere parte del compito di ciascuno, in quanto presenza intelligente che garantisce innovazione, interazione sociale e flessibilità. Nelle cooperative di lavoro la partecipazione è tutto questo più proprietà (e meccanismi di governance funzionanti) e informazione.

Lo sviluppo di percorsi partecipativi reali e non velleitari passa necessariamente attraverso forme incrementali di partecipazione, che vanno da un minimo a un massimo, e che richiedono di essere programmate, supportate, gestite e controllate attraverso processi di apprendimento organizzativo. È un lavoro lungo, sicuramente non spettacolare e suggestivo, soggetto a stop improvvisi e crisi di rigetto: scorciatoie e soluzioni facili non esistono, perché quelli che vanno modificati non sono solamente processi organizzativi e manageriali consolidati, ma anche e soprattutto, assetti di potere, assunti culturali, pregiudizi e diffidente consolidate.


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