“Comunque andai ancora un’altra volta a Brema, sempre nell’ambito del cosiddetto Premio Letterario, e non ho intenzione di passare sotto silenzio l’esperienza che ho fatto in questo secondo viaggio a Brema.
Ero uno dei cosiddetti membri della giuria che avrebbe scelto il successivo vincitore del premio ed ero andato a Brema con l’irremovibile proposito di dare il mio voto a Canetti, che, come credo, fino a quel momento non aveva ancora ricevuto nemmeno un solo premio letterario. Quali che ne fossero le ragioni, per me non esisteva allora altro candidato all’infuori di Canetti, qualsiasi altra ipotesi mi sembrava ridicola.
Mi pare ci fosse un lungo tavolo nel ristorante di Brema in cui si era riunita la giuria, e attorno a quel tavolo sedeva una schiera di signori con cosiddetto diritto di voto, tra cui il famoso senatore Harmsen col quale mi intesi molto bene. Credo che tutti avessero già fatto il nome di un candidato, e in nessun caso si era trattato di Canetti, quando toccò a me e dissi: Canetti.
Ero favorevole ad assegnare il premio a Canetti per il suo Auto da fé, la geniale opera giovanile che era uscita in una nuova ristampa un anno prima di quella seduta della giuria. Pronunciai ripetutamente la parola Canetti e ogni volta le facce attorno al lungo tavolo si contrassero in una smorfia di disappunto.
Molti a quel tavolo non sapevano neppure chi fosse Canetti, ma tra i pochi che sapevano di lui ci fu uno che tutt’a un tratto, dopo che ebbi ripetuto Canetti, disse: ma pure quello è un ebreo. Poi ci fu solo un mormorio e di Canetti non si parlò più. Ancora oggi mi risuona nelle orecchie la frase Ma pure quello è un ebreo!, anche se non saprei dire chi la pronunciò a quel tavolo. Ma ancora oggi la risento molto spesso, quella frase, è una frase che spunta fuori da un angolino assai inquietante anche se non so chi l’abbia pronunciata. Quella frase ha soffocato sul nascere ogni ulteriore dibattito sulla mia proposta di assegnare il premio a Canetti.
Così avevo preferito non prendere più parte al dibattito ed ero rimasto seduto al tavolo in silenzio. L’ora, però, era ormai inoltrata e, benché nel frattempo si fosse fatta un’infinità di nomi orribili che potevo mettere in relazione soltanto con chiacchiere e dilettantismo, non c’era ancora un vincitore. I signori giurati cominciavano a guardare l’orologio, e dalle porte a vento filtrava già il profumo degli arrosti. Così la tavolata, molto semplicemente, doveva prendere una decisione.
Con mio sommo stupore uno dei signori, di nuovo non so quale, tirò fuori dal mucchio di libri sul tavolo, a caso mi parve, un libro di Hildesheimer e disse in un tono di sconvolgente candore e addirittura già alzandosi per andare a pranzo: E prendiamo Hildesheimer, prendiamo Hildesheimer, e Hildesheimer era proprio il nome che mai era stato fatto in tutto quel dibattito durato ore. Adesso, all’improvviso, il nome di Hildesheimer era stato fatto e tutti spinsero indietro le loro sedie e si sentirono sollevati e convennero sul nome di Hildesheimer e nel giro di pochi minuti Hildesheimer fu scelto come nuovo vincitore del Premio Brema. Chi fosse davvero Hildesheimer probabilmente lo ignoravano tutti quanti. All’istante fu dato ai giornali l’annuncio che da quella riunione, durata più di due ore, era uscito incoronato Hildesheimer. I signori si alzarono e si trasferirono nella sala da pranzo.
Il premio era andato all’ebreo Hildesheimer”.
(Thomas Bernhard, I miei premi, Adelphi)